Perchè ho cambiato idea sulle keyword (not provided)

Finisce l’anno e come da tradizione arriva il tempo dei bilanci… vorrei quindi affidare al mio blog due riflessioni su come è cambiato il mio modo di lavorare nel corso del 2012. Si tratta di due cambi radicali di prospettiva, che non vogliono essere delle visioni assolute, ma certamente hanno rappresentato per me una vera e propria maturazione.

La prima delle due riflessioni riguarda l’ormai innegabile presenza sulla scena dei rapporti di Search Marketing delle parole chiave “non fornite” da Google, eliminate dal referrer per chi efettua ricerche da loggato, o per chi utilizza il motore di ricerca con il protocollo https . Per chi ancora non avesse le idee chiare in merito, rimando a questo esaustivo schema (link aggiornato con copia cache su Web Archive, mentre qua c’è la tabella mancante) creato già a fine 2011 da Giacomo Pelagatti.

Cosa pensavo nel 2011

Ero arrabbiato, molto. A dirla proprio tutta, ero tra gli araldi dell’apocalisse… mi sentivo come se Google avesse voluto nascondere colpevolmente qualcosa, come se avesse voluto esplicitamente danneggiare un intero settore, la SEO, che aveva fatto dell’analisi delle keywords il suo cuore.

Ero arciconvinto che il motivo per cui Google avesse scelto di nascondere le parole chiave per determinate categorie di utenti, non fosse quello dichiarato di proteggere la privacy degli utenti, bensì quello di proteggere dai concorrenti o da SEO malvagi il suo nuovo algoritmo che fonde risultati organici classici a quelli personalizzati per gli utenti Google (Search Plus Your World, attivo per ora soltanto nelle ricerche su Google.com in inglese).

La mia convinzione della cosa era così forte che non esitavo a presentarla anche ai clienti, ammiccando e dando comodamente la colpa a Google.

Cosa mi ha fatto cambiare idea

Non è qualcosa a cui sono arrivato di colpo… nel corso del 2012, mentre il peso delle parole not provided diventava sempre più rilevante, mi sono trovato spesso a riflettere su come potevo fare per aggirare il problema dell’analisi delle parole chiave. Ho letto articoli che suggerivano una redistribuzione proporzionale tra parole di brand e parole non di brand. Ho cercato anche io di scrivere un articolo che voleva suggerire di sostituire tramite un filtro la parola chiave (not provided) con il Title della pagina di destinazione (strada di fatto già battuta da altri e per questo motivo l’articolo non l’ho mai pubblicato).

Alla fine, mi sono dovuto arrendere davanti all’evidenza: le keyword non ci sono e non importa quale stratagemma possiamo inventarci: non è possibile riaverle indietro.

Il senso di impotenza è stato forse il primo, vero motore del mio cambio di convinzione. Pensavo: “Ok, le keyword non ci sono e dobbiamo attaccarci. Ma il mio lavoro lo devo fare comunque… come posso fare per creare valore per i siti dei miei clienti?”

La mazzata finale alle mie vecchie convinzioni è arrivata leggendo un articolo che spiegava in modo cristallino (link aggiornato con copia cache su Web Archive) come il problema di privacy fosse effettivamente qualcosa di concreto e non una semplice foglia di fico. In breve: il rilascio delle API di Google+ avrebbe permesso a chiunque con un minimo di competenze di programmazione, di creare un software che permettesse di ricondurre le parole chiave alla singola persona. E questo, naturalmente, includeva anche ricerche sensibili riguardanti ad esempio malattie o situazioni finanziarie.

Come la penso adesso

Cadute del tutto le riserve morali, diventava inutile dare la colpa a Google di quello che era un mio problema. Io sono il professionista, sono io ad essere pagato dai clienti perché cavi fuori le informazioni dai dati di traffico del loro sito internet, in modo che possano essere utili alle loro scelte di business.

Ho così iniziato a spostare l’attenzione dell’analisi dalle parole chiave verso le pagine di atterraggio e dal rapporto sulle posizioni (che già a metà 2012 avevo di fatto completamente abbandonato) verso il comportamento degli utenti sul sito.

Ho avuto modo di esporre nel dettaglio la mia visione in un’interessante discussione su Google+ iniziata da Justin Cutroni, Advocate di Analytics per Google… in breve: ho rinunciato ad analizzare il solo traffico delle parole chiave e lo accompagno sempre all’analisi del comportamento degli utenti sulle pagine di atterraggio relative al traffico di ricerca not provided.

Esaminare il comportamento degli utenti mi permette di capire se una determinata pagina di atterraggio riceve traffico pertinente e posso comunque sempre incrociare gli stessi dati con ciò che resta delle parole chiave fornite, per evidenziare eventuali discrepanze.

Ragionare in termini di tempo sul sito, pagine per visita e tasso di conversione come dati relativi alla pagina di atterraggio, ha permesso a me (e quindi ai miei clienti) di spostare l’attenzione da qualcosa che possiamo solo inseguire, ma che non possiamo comunque controllare (le keyword), verso qualcosa di cui abbiamo il completo controllo e che è sempre possibile ottimizzare e testare ulteriormente (la landing page).

In definitiva: penso che le parole chiave not provided siano state e siano tuttora una grossa sfida professionale per chiunque nel campo della SEO. Per quanto riguarda la mia esperienza sono state un’ottima occasione di crescita. Senza questo scoglio da superare, molto probabilmente sarei ancora fermo ai ranking report, con il costante timore che il cliente mi chieda di rendere conto di rapporti poveri di informazioni.

Un modo di lavorare di cui sono fiero di essermi disfato prima dell’arrivo dell’anno nuovo.

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